Mario Botta:
il valore civico del costruire
Il 23 febbraio incontriamo l’architetto e accademico virtuoso Mario Botta, prima di una conferenza su La responsabilità dell’architetto tra modernità ed eredità della città storica, tenuta all’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica. Il racconto di Botta parte dalle origini, dal suo senso di appartenenza ad una cultura di matrice italica, nonostante la cittadinanza svizzera; e procede discutendo della formazione e, soprattutto, della lezione impartitagli dai maestri che hanno attraversato il suo percorso da studente e da praticante. Ha ragionato sulla modernità di Venezia sin dall’antichità; sulla grande capacità di Le Corbusier di trasformare gli eventi in architettura; sull’attitudine di Carlo Scarpa di dare espressione anche ai materiali più umili; sulla sensibilità di Louis Kahn nel sapere cogliere i bisogni di un progresso apparentemente infinito ma che tecnicamente iniziava a mostrare i suoi limiti, riportando l’uomo al centro del processo creativo architettonico. Da Kahn ha assorbito, inoltre, l’importanza attribuita allo schizzo come atto primigenio più forte di una qualsiasi realizzazione finale. Lo schizzo, per Botta, incarna la visione del mondo, la prospettiva di cambiarla, poiché disegnando un orologio, una sedia o un pezzo di città si ha la possibilità di conferire uno spazio di vita all’uomo per dare adeguata espressione al vivere. In questi termini, dunque, l’atto di costruire è di per sé un atto etico, un’azione che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura.
«Sono nato in Svizzera ma mi sento culturalmente italiano»
Sono nato in Svizzera, da una famiglia svizzera, ma mia madre era di cultura e di nazionalità italiana, di Como. E vivo il mio Paese. Il mio Paese è la Svizzera e, anzi, questo mi permette di avere un occhio critico verso il proprio Paese. Però, se devo dare una definizione di una matrice culturale, io mi sento profondamente italiano, culturalmente italiano. Non solo perché ho studiato dapprima a Milano e poi a Venezia. E poi successivamente vivo in maniera più diretta e più intensa la cultura italiana che non la cultura europea, per un problema anche di lingua e di distanza fisica. Però sono molto orgoglioso di questo: di essere culturalmente italo-svizzero e non svizzero-italiano. Perché ritrovo nella cultura italiana il seme di quella cultura cristiana occidentale che ha connotato e che connota tuttora, malgrado tutti i difetti, l’essere cittadino europeo. Io considero l’Europa come un crogiuolo straordinario di pensieri, di cultura di una storia dell’umanità, molto più complessa, meno primitiva, meno approssimativa.
La città europea è la forma di convivenza sociale più elevata
Considero la città europea come la forma di aggregazione umana più complessa, più bella, più intelligente, più flessibile che ci sia. Non c’è altra forma di convivenza sociale così elevata. Siamo andati sulla Luna, ma non abbiamo creato un’altra forma di vita sociale. Penso alla città europea come all’elemento cardine attorno al quale potrà nascere anche in futuro forse altre forme, ma intanto gode di questa complesità e di questa ricchezza.
«Lo schizzo annuncia un problema, non lo risolve»
La prima idea di un’opera di design o la prima idea di architettura, di fatto parlano della “prima idea” e quindi di una interpretazione spontanea diretta anche molto approssimativa, perché i primi schizzi sono approssimativi. Però parla sempre di una speranza, parla di un qualcosa a cui si tende. È impossibile dire se sia più affascinante quella di un oggetto di uso quotidiano o quella di un grande insieme urbanistico che poi invece dovrà fare i conti con la grande complessità. Però lo schizzo è la trasformazione di una Weltanschauung – direbbero i tedeschi –, di una “visione del mondo”. Anche quando fai un orologio, quando fai un bicchiere, quando fai una seggiolina o quando fai un pezzo di città parli della tua possibilità di dare all’uomo uno spazio di vita che sia un po’ più gradevole, che dia un po’ di gioia di vivere, che è l’obiettivo per il quale tutti noi lavoriamo. Quindi lo schizzo porta con sé l’atto primigenio, l’inizio di un’avventura. Kahn dice che l’inizio è molto più forte della realizzazione finale, perché l’inizio porta già i semi, porta già il potenziole di sviluppo futuro anche se non l’ha. È quindi lo schizzo, è la matita – io uso ancora la matita – che mi dà sempre questa gioia di vivere, di poter dare un aiuto, un contributo. E in un certo senso tante volte nella complessità di oggi di poter salvare almeno me stesso, di fronte alla complessità del mondo. Quindi, lo schizzo come speranza, che è l’opposto, invece, del disegno che ti offre il plotter. Il disegno elettronico per me è un disegno muto. È uno strumento fantastico... io sto lavorando in Cina, la sera disegno e alla mattina trovo i disegni stampati nello spazio di una notte. Intanto che io sognavo in un altro mondo... però, appunto, è stampato. E quindi è finito. Mentre invece lo schizzo ti lascia una speranza di correzione, soprattutto. Lo schizzo non risolve mai un problema, annuncia il problema. E poi la soluzione sarà rinviata al processo successivo.
«Se io potessi scegliere, farei solo luoghi di culto»
Il tema della chiesa con il quale mi sono confrontato, il tema dell’edificio di culto è una costante che ho scoperto a partire dagli anni ’80, la metà degli anni ’80. E devo dire che continuo ancora in forme diverse e, forse, potrei tranquillamente dire che se io potessi scegliere farei solo luoghi di culto. Perché portano con sé, innanzitutto, una storia millenaria e tu diventi parte di questa storia dell’umanità che ha costruito questi luoghi così particolari. E, inoltre, sei molto più libero perché i dati tecnici funzionali sono ridottissimi. Una chiesa ha l’altare e il popolo dei fedeli. Non è che abbia dei condizionamenti tecnici distributivi funzionali fortissimi, e anche gli elementi liturgici sono stati oramai sedimentati. Ecco quindi restano tutti i valori dell’architettura. Attraverso l’architettura del sacro ho scoperto i valori primordiali del fatto architettonico in se stesso. La condizione di limite attraverso le mura, la condizione di gravità, la condizione della luce come generatrice dello spazio, la condizione di soglia, che sono gli elementi che connotano tutta l’architettura civile, profana, militare. E nell’elemento di culto, nell’elemento legato al fatto religioso prendono più forza, proprio perché le altre componenti distributive e tecniche hanno meno importanza e restano gli elementi strutturali.
La cappellina del Monte Tamaro è come «un chiodo di pietra messo dentro la montagna»
La cappellina del Monte Tamaro è stata una bella esperienza voluta da un privato. Si sale solo con una cabinovia. Avevo subito chiamato Enzo Cucchi, che è un amico, perché ci eravamo promessi reciprocamente di lavorare insieme se ci fosse stata la possibilità di una cappella. Questo edificio è un modo, secondo noi, per valorizzare la montagna stessa. È un chiodo di pietra messo dentro la montagna. Per cui il fruitore che arriva in alto trova gli elementi che la montagna non può dargli: un piano perfettamente orizzontale che esce sotto il promontorio fino a diventare elemento di belvedere con la piana sottostante che è a mille metri di profondità. E questo sottolinea, esalta il rapporto con il paesaggio dell’uomo, del fruitore. D’altra parte la chiesa diventa come una cripta molto chiusa, tutta nera unicamente con le finestrelle aperte non verso l’alto, ma verso il basso, verso il paesaggio. Quando si è in montagna si guarda la valle sottostante e, quindi, ho rovesciato una serie di parametri. Per dire, facciamo la finestra per prendere la luce... no facciamo la finestra per far entrare il paesaggio. Poi la luce la prendiamo con dei piccoli shed sulla copertura. È stato un esercizio proprio dal tema liturgico, dal tema di culto di questa piccola cappella che ha esasperato anche la conquista della montagna. Il fruitore deve fare settanta metri perfettamente orizzontali su una passerella verso il vuoto e poi deve ritornare, rovesciando il suo punto di vista, per scendere e trovare questo spazio particolare di preghiera, di silenzio, di meditazione.
«L’architettura porta con sé l’idea del del sacro»
Io penso, e sono profondamente convinto, che l’architettura ha con sé l’idea del sacro. E abbiamo una serie di elementi che ci confermano questo. Il primo atto del fare architettura è mettere pietra sul suolo. Quindi non di mettere pietra su pietra, ma mettere pietra sul suolo. Vuol dire trasformare una condizione di natura, in una condizione di cultura. E, quindi, già di per sé, se è così, porta lo spirito dell’uomo. Porta i valori di questa trasformazione che è il segno di un bisogno dell’uomo di aver un habitat, di avere dei collegamenti con altri uomini, porta il segno di civiltà.
Il secondo aspetto è quello più legato allo strumento dell’architetto. Il primo gesto del fare architettura è quello della pietra, ma il primo gesto dell’architetto è quello di tracciare un perimetro. Non importa quale disegno tu fai, per affrontare la progettazione, quindi, la complessità dell’interno, definisci un perimetro. E quindi fai un atto sacro. Fai un atto che divide il macrocosmo del mondo dal microcosmo, della cellula e, quindi, della sacralizzazione di quello spazio. Quello che è dentro è un mondo totalmente diverso dal di fuori.
E poi gli strumenti dell’architetto. Il muro come limite ma anche come apertura all’infinito. Se non ci fosse questa condizione di limite delle mura, è difficile pensare ad altro rispetto al limite. O la luce, come ho detto in precedenza, come generatrice dello spazio, che inonda i materiali. Quindi l’architettura è molto vicina ad un atto sacro, è molto parente. Io teologicamente non ho mai approfondito questo, non è, forse, il mio compito e non ne ho neanche la possibilità. Però ho sempre trovato nei grandi pensatori del fatto architettonico questo fatto sacrale, questo fatto di parlare attraverso il costruito più dello spirito dell’uomo che non dei bisogni materiali dell’uomo. L’uomo è chiaro che non può abitare sugli alberi. Deve abitare in un microclima che si crea, però l’abitare non è solo l’esigenza fisiologica, l’esigenza del vivere materiale. E, quindi, metti in condizione di dialogare, di cercare i valori dello spirito oltre.
Il bisogno umano del luogo sacro
Io non conosco cultura umana nella storia della cività che non abbia avuto il bisogno, ad esempio, di avere una sacralizzazione di un luogo. Dalle steli primitive, fino alle odierne condizioni degli spazi dedicati al sacro, c’è il bisogno di trovare degli spazi deputati a questo ruolo. Perché molti pensano: “ma io lo spazio del sacro lo trovo in riva ad un fiume, sulla cima di una montagna” ma non è di quello che noi parliamo. Noi parliamo di uno spazio non per te, uomo che puoi averlo e puoi anche non avere questa esigenza. Ma uno spazio deputato al vivere collettivo. La chiesa, il tempio, il Pantheon o il Partenone erano dei luoghi predisposti e interpretavano il bisogno di una collettività di avere questo spazio così particolare, di silenzio, di preghiera, di sacrificio.
«La vera difficoltà oggi è fare una chiesa dopo Picasso»
L’architettura porta sempre con sé lo specchio, talvolta impietoso, della collettività. E quindi una società fragile, una società debole è chiaro che si rifà pensando ad altre culture e da lì nascono i “neo”: il neogotico, il neorinascimentale e su su. Ma io credo che la storia dell’uomo non sfugge ad una necessità di declinare questo bisogno primordiale dell’uomo nella cultura del proprio tempo. E lì nasce la difficoltà della nostra generazione. Noi siamo figli, in un certo senso di una grande tradizione millenaria, che però si è sempre sviluppata molto lentamente. Le chiese, i templi e su su fino ai bisogni legati anche alle contingenze delle diverse forme di religiosità sono cresciute lentamente, vorrei dire fino alla metà del ventesimo secolo, fino Rudolf Schwarz a Guardini che ne era il teologo che interpretava le trasformazioni di questi edifici di culto. Poi sono arrivate le avanguardie del ventesimo secolo Duchamp, Picasso e hanno stravolto il nostro senso estetico e quindi anche il notro senso etico. Quindi la vera difficoltà oggi è fare una chiesa dopo Picasso. Perché prima di Picasso, ognuno di noi aveva subìto delle trasformazioni lente e se ne appropiava via via – magari con i “neo” – fino al modernismo e gli esempi supremi che ha dato Rudolf Schwarz, che è stato l’ultimo dei moderni a interpretare questa grande tradizione culturale. E la nostra difficoltà è che oggi siamo in una società molto eterogenea, molto sbandata. In un certo senso, viviamo il paradosso di una società secolare, di una società secolarizzata dove, invece che l’eliminazione del bisogno di spiritualità, abbiamo il moltiplicarsi delle forme di religiosità. Abbiamo una società multi religiosa. Complessa e multi religiosa dopo che avevamo pensato di poterci dedicare invece in maniera più autonoma, più civile in una società secolarizzata. Il bisogno di sacro rinasce in forme molto diverse e molto più difuse. Per cui noi viviamo la secolarizzazione, ma di una società pluri-religiosa, multi-religiosa. E dobbiamo fare i conti con una pluralità di esigenze molto diverse.
L’incontro con Le Corbusier
Dopo questa esperienza di lavoro e di studi all’Istituto universitario di architettura di Venezia, ho cominciato subito l’attività professionale. Ricordo che Louis Kahn, con il quale ho avuto l’ultima esperienza come studente per il progetto del Palazzo dei Congressi a Venezia, quando ci siamo lasciati mi ha detto “ma sei sicuro di non venire a Dacca?” (lui stava lavorando a Dacca). Io l’ho ringraziato. Naturalmente era un’opportunità straordinaria in quel momento. Però per me era più importante ritornare là dove ero nato e cominciare dalla gavetta, dalle prime case per gli amici, a lavorare. Devo dire che sono riconoscente a Venezia, che mi ha permesso innanzitutto di incontrare Venezia, che continua ad essere una città straordinaria per la sua grande modernità, come diceva Le Corbusier. La divisione dei percorsi fra percorsi delle merci sui canali ondulati e i percorsi zigzagati delle calli e dei campielli dei pedoni aveva già risolto un problema che poi avremmo trovato nel ventesimo e nel ventunesimo secolo ancora da risolvere. E Venezia mi aveva offerto questa strordinaria opportunità attraverso Giuseppe Mazzariol che era il direttore della Querini Stampalia e al quale io mi ero rivolto sapendo che doveva venire Le Corbusier per fare il progetto degli Ospedali Riuniti. E mi ricordo dell’incontro alla Querini Stampalia, dove ho chiesto udienza a Giuseppe Mazzariol, che era il mio professore di istituzioni di storia dell’arte. E mi disse “Ma cosa vuoi?”. “Voglio lavorare con Le Corbusier “ . Lui si è messo a ridere “Ma tu sei matto, perché questo qua viene a fare questo progetto... ma cosa vuoi che gliene freghi di uno studente dell’Istituto di Venezia”. Ma poi insistendo in realtà, quando si vuole una cosa alla fine la si ottiene. E un giorno ho ricevuto un biglietto di Giuseppe Mazzariol che mi dice “Se ti presenti alla Querini il giorno tale... Le Corbusier vuole aprire uno studio a Venezia per verificare il progetto, per parlare con i diversi direttori di sanitari... manda due suoi collaboratori Julliane de La Fluente e Jose Oubrerie. Se vuoi fare il ragazzo di bottega...” E io mi sono presentato e in quel modo ho avuto l’opportunità di lavorare non direttamente con Le Corbusier, ma di lavorare per Le Corbusier. E alla fine avevamo poi stabilito anche che sarei andato nello studio di Rue de Sévre a Parigi.
«Le Corbusier ha trasformato i bisogni della società in tipologie edilizie»
Le Corbusier per me è colui che ha saputo trasformare più di altri architetti gli eventi della vita in architettura. Le Corbusier è la storia delle trasformazioni del ventesimo secolo, della seconda metà del ventesimo secolo, per cui ogni volta che vi erano dei problemi, la ricostruzione post-bellica, i problemi sanitari, di volta in volta inventava delle tipologie per la città, per l’habitat, per i servizi per poter risolvere questi problemi. Quindi, se dovessi fare una sintesi, è colui che ha trasformato i bisogni della società in tipologie edilizie, in invenzioni architettoniche. Da i bisogni della preguerra, fra le due guerre su su fino agli anni cinquanta.
«Carlo Scarpa veniva da una cultura artigiana che in realtà era la grande cultura rinascimentale italiana»
Poi Venezia mi ha offerto una permanenza costante per cinque anni di studi di un rapporto con Carlo Scarpa, che è stato il mio professore anche alla tesi di laurea. Ed è un altro personaggio molto straordinario, poiché ha saputo dare voce anche ai materiali più poveri. Carlo Scarpa aveva una ipersensibilità tale da poter dare espressione, da poter dare la parola, da poter dare l’immagine anche ai materiali più umili: lo stucco, il legno, la ghiaia, perfino. Ricorco che a noi studenti diceva che i materiali sono fondamentali. Faceva un esempio: se tu devi disegnare una strada in terra battuta la farai larga anche quindici, venti metri. Ma se questa strada tu devi farla di un materiale più pregiato, la fai in asfalto, la farai invece più ridotta, perché riducendo la dimensione dai forza al materiale. Se devi farla in cemento, la farai ancora più disegnata. E se la fai in pietra sarà sottilissima. E se la fai in oro diventerà unicamente una traccia di un profilo, di qualche millimetro d’oro, che però disegna l’idea di un percorso, di un collegamento tra due punti diversi. Questo per dire che come professore era straordinario, perché veniva da una cultura artigiana che in realtà era la grande cultura rinascimentale italiana. Era forse quello che più di altri ha saputo far proprio l’insegnamento di bottega. E da questo punto di vista era un architetto moderno ma con questa grande forza di un territorio della memoria.
«Kahn aveva capito i limiti del progresso tecnologico e ha riportato l’uomo al centro del processo creativo»
Il terzo incontro veneziano è stato quello con Louis Kahn, per il progetto del Palazzo dei Congressi, ancora grazie ai buoni uffici di Giuseppe Mazzariol, che mi ha messo in contatto. Per cui quando Kahn aveva bisogno di un rilievo, aveva bisogno di un piano, aveva bisogno dei dati metereologici sul clima di Venezia, scriveva. E, attraverso Giuseppe Mazzariol, io facevo il ragazzo di bottega e andavo a soddisfare questi bisogni. Kahn nel suo insegnamento forse di più grande attualità del ventesimo secolo aveva colto i bisogni di un progresso apparentemente infinito, ma di un progresso tecnico, che invece cominciava a mostrare i suoi limiti. Aveva capito i limiti dello sviluppo tecnologico e aveva riportato l’uomo al centro del processo creativo, del processo di produzione architettonica. Quindi la sua capacità di andare alle origini dei problemi, capire la casa come un rifugio, capire la scuola come una istituzione, capire la sinagoga o la chiesa come luogo di silenzio e di preghiera e di comunicazione con altro è stato un insegnamento fortissimo.
Il MART di Rovereto: una soluzione per il rapporto fra nuovo ed antico
L’occasione del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto è stata per me il primo incontro con il grande tema dei musei. Che hanno avuto una fortuna critica incredibile nel ventesimo secolo. Nella seconda metà del ventesimo secolo abbiamo costruito più musei di tutta la storia dell’umanità. Quindi, era un tema proprio della nostra generazione. In questo caso c’era una preesistenza che era Corso Bettini, la strada che dal centro storico porta a Trento, già connotata con una serie di palazzi importanti: Palazzo Annone, Palazzo Alberti, il Teatro storico esistente, lo stabile dell’Università, un vecchio convento delle suore. Quindi era una via già connottata da una serie di edifici istituzionali molto importanti. E quando mi è stato dato il mandato, il Comune pensava che io scegliessi di costruire sul fronte di Corso Bettini. Cosa che noi abbiamo eliminato come possibile collocazione, per evitare che ci fosse un rapporto stridente fra il nuovo e l’antico. Fra il nuovo e l’antico ci deve essere un dialogo, ci deve essere un confronto anche forte ma con scale di percezioni molto diverse. E allora invece di metterlo sul fronte strada lo abbiamo messo arretrato. E questo ci ha liberato da una serie di vincoli, dei rapporti con le preesistenze perché dietro sei più libero. Abbiamo fatto un grande volume: il volume richiesto dal MART era un volume abnorme, rispetto agli edifici già esistenti. E mettendolo in seconda fila, paradossalmente lo abbiamo valorizzato, perché abbiamo aperto una breccia fra Palazzo Annone e Palazzo Alberti. E questa breccia fa sì che gli dà una dimensione diversa nel rapporto fra il linguaggio nuovo e la dimensione anche nuova del MART, con le preesistenze. Abbiamo fatto in modo che queste preesistenze fossero in dialogo con il vuoto creato e non con il pieno, non con il volume. Ed è stata una scelta, a me sembra, vincente.
Le stazioni della metropolitana a Napoli
Sono stato chiamato per fare le stazioni della metropolitana di Napoli, in particolare, Poggioreale e la stazione dei Tribunali. Sono stazioni di una seconda linea che è in realizzazione per la continuazione del sistema di distribuzione metropolitano. E, quindi, ci sarà: il progetto è stato fatto, adesso stanno faceno i piani esecutivi Scognamiglio e un’altra collega. Noi controlliamo, verifichiamo che corrisponda ai nostri desiderata. Non so quali siano i tempi tecnici perché a Napoli, in particolare nel sottoterra, non è che sia una passeggiata costruire una metropolitana e una stazione per la metropolitana. Però sarà fatta e sono molto contento d’aver partecipato a questo insieme. E sono molto affascinato dal risultato che finora questa stazioni hanno dato, proprio perché cambia il paesaggio. Oltre ad essere il termometro di una nuova cultura, di una nuova sensibilità, di una nuova immagine, trovi che lasci questa meravigliosa città con il suo rapporto con il mare, con il Vesuvio, con la collina e con questa urbanizzazione così apparentemente caotica ma è di un caos di cui noi abbiamo bisogno per sentirci parte di questa umanità. E poi sottoterra, invece, trovi queste stazioni dove gli artisti hanno, io credo in maniera diversa, interpretato bene la sensibilità dei nostri anni, del nostro tempo.
«Nell’esperienza in Cina, “ho scoperto in maniera più acuta i limiti dell’Occidente»
In questi ultimi anni mi sono arrivate delle proposte per costruire in Cina. E sono andato curiosando anche perché mi sono stati offerti dei temi a quali io avevo sempre ambito: una biblioteca, un museo, una forma di campus universitario. Temi straordinari che parlano delle istituzioni umane. In questo momento sto costruendo in sei città diverse, ho sei mandati diversi, in formule anche molto differenziate nelle dimensioni. E devo dire che è stata un’esperienza curiosa, che mi ha fatto scoprire in maniera forse più acuta i limiti dell’Occidente. Vedendo questo popolo che si ricorda del medioevo come noi ci ricordiamo dei nostri nonni. Per lor cinquant’anni fa era il medioevo. Hanno dei ricordi di sistemi di vivere che per noi invece risalgono molto più lontano. E quindi bisogna capire questa loro angoscia, questa loro violenza, questa loro fretta di superare e magari anche di sbagliare. Perché vogliono sbagliare in proprio. Questa è la cosa che mi sembra chiara nei rapporti che ho stabilito. Però hanno una spinta che quando io ritorno in Europa non ritrovo più. Nelle piazze , negli aeroporti cinesi trovo un’infinità di bambini, di giovani che si muovono, di famiglie con i pargoli. E poi torni in Europa e trovi solo anziani. Non c’è più questo bisogno, questa sete di trovare mondi migliori. Forse stiamo troppo bene. Siamo dei gâté, siamo dei viziati... E quindi sono esperienze che faccio, faticose, perché non bisogna guardare solo i risultati che sono pagati a caro prezzo di sacrifici, di viaggi, di fatiche e anche di limiti. Perché andando a costruire dove il prezzo della costruzione è dieci volte meno di quello in Occidente, vedi tutti i limiti che ci sono anche tecnologici, anche espressivi. Però è un’esperienza che ho fatto volentieri, che raccomando ai giovani, magari part-time, a breve tempo, ma che fa capire anche come noi stiamo invecchiando.